Proprio qui, a Trieste, da diversi anni è attivo un gruppo di lavoro che ha come obiettivo la critica delle parole ostili attraverso manifestazioni pubbliche: l’ultima è avvenuta qualche giorno fa a Porto Vecchio e ha riunito centinaia di studenti distribuiti in numerosi tavoli allo scopo di “inventare” parole amiche in contrasto con quelle che di solito adoperiamo. La sigla di questa manifestazione, precisamente “Parole O_stili”, basterebbe, con il suo gioco di maiuscole e trattini di congiunzione, a suggerirci che la questione non è poi così semplice.
Non è semplice indicare in che cosa può consistere l’ostilità delle parole che di solito operiamo, come si possa cambiare “stile” da un uso quotidiano molto discutibile a una modalità, diciamo così, “virtuosa” del nostro modo di adoperare le parole. La cosa curiosa è che la questione si complica non solo nei tentativi di costruire un linguaggio positivo ma anche, e forse soprattutto, nel cercare di capire bene quando e come le parole che adoperiamo risultino “nemiche” e appunto ostili.
Sembrerebbe ovvio, ma non lo è del tutto: ostili sono palesemente gli insulti, con tutta la loro fraseologia, e l’ostilità si manifesta sicuramente nel tono di voce che adoperiamo, nelle comunicazioni vibrate e colorate di rabbia, forse di più in questa, chiamiamola, “coloritura” irata che non attraverso le parole stesse (le quali, senza che si alzi la voce, potrebbero sembrare innocue e perfino pacifiche). Come si vede, e si sa, la questione non è poi così semplice e le parole in quanto tali, se le isolassimo, potrebbero anche risultare estranee all’ostilità della comunicazione.
Vorrei portare un esempio al quale ricorriamo poco o quasi mai: l’esempio del tacere, cioè del “silenzio”. La comunicazione, tanto quella pubblica (che, di solito, ci arriva attraverso i media), quanto quella diciamo “privata”, cioè quella che avviene nella normale vita quotidiana di ciascuno di noi, è fatta di parole e di silenzi. Chi scrive queste righe ha tessuto molto spesso le lodi del silenzio, e lo ribadisco qui, ma occorre riconoscere che il silenzio è anche un’arma capace di produrre e intensificare l’ostilità.
Da una parte, la nostra capacità di introdurre il silenzio nei discorsi che facciamo, negli scambi che abbiamo con gli altri, è qualcosa di decisamente virtuoso: ha in sé la virtù del riuscire ad ascoltare gli altri, la capacità, non così semplice, di trattenersi dal rispondere. Questa capacità, non banale e sempre meno disponibile, questo riuscire ad aspettare, cioè a costruire dei tempi di intervallo nelle nostre conversazioni di ogni giorno, e proprio ciò che permette la comunicazione, ciò che ci trattiene dalla replica immediata grazie a una pausa che allarga la comunicazione stessa.
Questo “esercizio del silenzio”, come mi piace chiamarlo, risulta sempre meno facile da promuovere e realizzare nella situazione attuale: con i tempi che corrono, sempre più precipitosi, questo silenzio è diventato qualcosa di raro: come se, per compiere anche solo un poco di questo esercizio, occorressero ormai una grande pazienza e spesso la convinzione di una sua estrema difficoltà.
Tuttavia, come possiamo negare che esista una pratica ostile del silenzio? Tu parli e l’altro non risponde, si gira dall’altra parte come se non ti avesse sentito. E allora dobbiamo anche (anzi, sempre di più) fare i conti con un silenzio che cancella l’ascolto, cancellando ogni dialogo e perfino la sensazione che tu sei lì, presente.
Non è difficile constatare che “questo” silenzio è una pratica che caratterizza significativamente la situazione sociale e individuale che stiamo vivendo: un silenzio che ti isola, a volte completamente, ti cancella come interlocutore e ti dà quasi l’impressione raggelante di non esistere.
Dunque, dobbiamo tenere conto che l’ostilità delle parole va paradossalmente al di là delle parole stesse: finché ti riguardano, anche nella maniera più ostile, hai un tuo angolo, magari minimo, nella comunicazione. Ma quando le parole dell’altro ti escludono, avvolgendoti in un silenzio insopportabile, allora vieni escluso da ogni reale comunicazione: non ci sei più., non esisti.
L’ostilità può, insomma, spingersi oltre un rapporto di inimicizia e trasformarsi in una totale negazione: non ti nega soltanto il diritto di una qualunque risposta, fosse solo un lamento, ti esclude definitivamente. Osservando questo, non sto soltanto immaginando situazioni di grande violenza, una realtà che per fortuna non ci riguarda da vicino e non appartiene dunque alla nostra acquisita “civiltà”. La violenza del silenzio può appartenere a noi stessi, alla nostra normalità e presunta distanza da ogni barbarie.
Grazie ❤️