Individualismo, perché no?
Marc Augé, il noto studioso francese recentemente scomparso, aveva caratterizzato con l’espressione “non-luoghi” quelle situazioni della vita quotidiana di oggi in cui le persone si incontrano senza mai davvero incontrarsi, come le stazioni, gli aeroporti o le metropolitane: lì non ci sono relazioni ma flussi di individui, dunque trionfa l’anonimato.
Il discorso sulle pratiche digitali, che ormai avvolgono l’intero pianeta, appartiene a sua volta a questi non-luoghi, per quanto sia più complesso dunque meno circoscrivibile, e non è un caso che adoperiamo qui il termine “siti”. Anche il sito non è un autentico luogo perché i nostri veri luoghi sarebbero quelli in cui abitiamo effettivamente insieme agli altri, socializziamo concretamente con altre esistenze individuali, senza isolarci, senza alimentare la solitudine.
È abbastanza evidente che la solitudine è il rischio che sta correndo il mondo contemporaneo, forse perfino identificabile con la oscura malattia che sta corrodendo la vita di ciascuno di noi senza una medicina in grado di curarla. Eppure stiamo paradossalmente remando verso la sponda opposta e percorriamo ogni giorno che passa la strada dell’individualismo, nella persuasione sempre più diffusa che sia la via opportuna per stare bene proprio in questo mondo così delocalizzato e anonimo.
Se ci pensiamo un momento, ci apparirà per quello che è, cioè un clamoroso paradosso. Da una parte vorremmo sfuggire dall’anonimato consolidando il valore dell’individuo in un’esistenza possibilmente da protagonisti e dunque promuovendo il pronome “io” sopra tutti gli altri pronomi personali (il “tu”, il “noi”, ma anche il “lui” e il “loro”), facendone appunto una bandiera individualistica da imbracciare in qualunque momento.
Dall’altra parte ci stacchiamo dalla comune socialità proprio quando dovremmo tentare di riconoscerle il ruolo che sta perdendo, cercando di allentare il nostro desiderio di protagonismo. È palese che in tale gioco paradossale la scelta di impegnarsi a ritrovare la socialità e il senso dei luoghi che stiamo perdendo è quella più faticosa e meno premiante, o almeno non in tempi brevi.
Noi, invece, vorremmo risultati immediati, abbiamo fretta, non abbiamo voglia di attendere che dinamiche lente ci affannino di continuo. Perciò ci iscriviamo senza troppo esitare sul registro degli individualisti, anche quando ci accorgiamo dei rischi che possiamo correre: i vantaggi ci sembrano molto più promettenti e allora diciamo a noi stessi “perché no?”. E infatti, in varia misura, stiamo tutti diventando individualisti, come facilmente possiamo verificare.
Da praticante del pensiero filosofico, più precisamente nella veste di chi riconosce alla fenomenologia meriti evidenti per ciò che ci ha insegnato sulla questione del “soggetto”, vorrei aggiungere un’osservazione a proposito della cultura che promuove l’importanza di un pensiero “in prima persona”. La mossa da fare pare proprio un ritorno a quel “soggetto in prima persona” che siamo portati quasi sempre a tralasciare a vantaggio di idee che non fanno i conti con un simile ritorno o passo indietro.
Eccoci allora in una vistosa e pericolosa conseguenza, non così facile da evitare, ovvero che ciò significhi premiare l’“io” e con esso aprire la porta all’individualismo. È tutto il contrario, perché qui il processo passa attraverso una messa in questione radicale di sé stessi, o almeno la più radicale possibile, che ci permetta di sgombrare il terreno da ogni pretesa collegata alla potenza (all’onnipotenza?) dell’io.
Mi fermo per non tediare il lettore. Si tratta di distruggere l’io che ci siamo costruiti con innumerevoli rivestimenti ideologici, tentando di “sospenderne” l’automatismo, cioè si tratta dell’esatto contrario di una promozione dell’individualismo. La scoperta dell’individuo che ciascuno è nella propria differenza ci porta subito alla comprensione che tra soggetto e intersoggettività c’è un ponte che non abbiamo costruito noi e che ci conduce proprio verso quella socialità che l’individualismo trionfante vorrebbe cancellare.
Accade l’esatto contrario, e cioè che possiamo “tornare” a quel soggetto che siamo solo se riusciamo ad attraversare l’insieme dei soggetti entro cui viviamo e che ci caratterizzano.